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giovedì, Agosto 14, 2025
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L’Intervista Impossibile – Bora Milutinovic. 3ª parte. Un allenatore unico nella storia del calcio

L’INTERVISTA IMPOSSIBILE: BORA MILUTINOVIC – TERZA PARTE

IMPORTANTE: Questa è un’intervista immaginaria con Bora Milutinovic simulata con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale e nello specifico grazie al supporto della LLM di Claude Sonnet di Anthropic nel ruolo di Milutinovic


Bora Milutinovic – 80 anni. Nasce come giocatore nel Partizan Belgrado. Ha giocato anche in Svizzera (Winterthur), Francia (Monaco, Nizza e Rouen) e Messico (Pumas UNAM). Come allenatore dei Pumas UNAM prima e poi con la Nazionale in Messico. In seguito ha allenato il San Lorenzo (Argentina) e l’Udinese (Italia). Ha fatto il selezionatore con Costa Rica, Stati Uniti, Messico, Nigeria, Cina, Honduras, Giamaica e Iraq.


E’ vero che per il Mondiale USA del ’94 Kissinger si avvalse del consiglio di Beckenbauer per sceglierti come tecnico della nazionale a stelle e strisce in quanto eri definito “l’allenatore dei miracoli”?

*[Sistemandosi sulla sedia con un sorriso diplomatico, tipico del suo stile]* Ah, questa è una storia molto interessante…

*[Con un tono tra il divertito e l’orgoglioso]* Sa, quando si parla di Henry Kissinger nel calcio, bisogna capire che lui vedeva questo sport come una forma di diplomazia internazionale. Ed è vero, fu proprio lui, insieme al Kaiser Franz Beckenbauer, a giocare un ruolo chiave nella mia nomina.

*[Entrando nei dettagli]* Kissinger era nel comitato organizzatore di USA e aveva una visione molto chiara: voleva qualcuno che potesse tradurre; il calcio per gli americani, ma che avesse ancheesperienza internazionale. Beckenbauer mi conosceva bene, aveva
visto il mio lavoro con il Messico nell’86 e con il Costa Rica nel 90.

*[Con un tocco di umorismo]* Mi chiamavano l’allenatore dei miracoli, è vero, ma sa cosa dicevo sempre? I miracoli nel calcio non esistono – esistono il lavoro duro e la capacità di adattarsi.

*[Rivelando un aneddoto]* Ricordo il primo incontro con Kissinger. Mi fece una domanda molto diretta: Come pensa di far capire il soccer agli americani? Gli risposi che non dovevamo far capire ilcalcio agli americani, ma dovevamo far capire l’America al calcio.

*[Sorride]* Credo che questa risposta lo convinse definitivamente.

*[Con tono più serio]* La sfida era enorme. Gli Stati Uniti non si qualificavano a un Mondiale dal 1950, non avevano un campionato professionistico… Ma avevano qualcosa di speciale: la mentalità vincente dello sport americano e atleti fisicamente molto preparati.

*[Concludendo con orgoglio]* Alla fine, arrivammo agli ottavi di finale, perdendo solo 1-0 contro il Brasile che poi vinse il Mondiale. Kissinger mi disse che avevamo fatto più per la diplomazia del calcio di quanto molti trattati avessero fatto per la diplomazia tradizionale.

*[Sorride]* E forse aveva ragione – il calcio ha questo potere di unire le persone al di là delle differenze culturali.

Come sei riuscito a riportare la Nigeria alla fase finale di un Mondiale a Francia ’98?

*[Accomodandosi con un’espressione vivida nel ricordo]* Grande Nigeria… *[Con entusiasmo]* Le Super Eagles! Sa, quella fu una sfida particolare. Arrivavo dopo che la Nigeria aveva vinto l’oro olimpico ad Atlanta, una squadra piena di talento con giocatori come Jay-Jay Okocha, Nwankwo Kanu, Daniel Amokachi, Sunday Oliseh…

*[Con tono tecnico]* Il mio compito era delicato: dovevo mantenere quello spirito vincente, ma aggiungere organizzazione tattica. La Nigeria aveva questo calcio esplosivo, pieno di fantasia, ma a volte mancava di equilibrio.

*[Rivelando un aspetto cruciale]* Sa qual era la vera sfida? Gestire le enormi aspettative. Dopo l’oro olimpico, in Nigeria si pensava di poter vincere il Mondiale! Dovevo essere diplomatico: mantenere l’entusiasmo ma anche far capire che il calcio internazionale richiede pazienza e organizzazione.

*[Condividendo un aneddoto significativo]* Mi ricordo che nei primi allenamenti, invece di imporre subito il mio metodo, passai molto tempo a osservare come i giocatori interpretavano naturalmente il gioco. Okocha, per esempio, aveva una creatività incredibile – non volevoingabbiarla, ma solo incanallarla in un sistema più efficace.

*[Con orgoglio]* Ci qualificammo con autorità. Al Mondiale, nel girone con Spagna, Paraguay e Bulgaria, partimmo alla grande battendo la Spagna 3-2.

*[Scuotendo la testa]* Purtroppo poi… beh, sa come andò con la Danimarca agli ottavi.

*[Concludendo filosoficamente]* La Nigeria mi ha insegnato che a volte il compito di un allenatore non è cambiare lo stile di una squadra, ma trovare il modo migliore per esaltarlo. Il calcio africano ha una sua poesia particolare, e un allenatore deve essere abbastanza saggio da rispettarla.

Il miracolo lo hai fatto otto anni dopo classificando per la prima volta la Cina al Mondiale di Corea/Giappone del 2002. Che ricordo hai?

*[Sorridendo con un misto di orgoglio e nostalgia]* Ah, la Cina… *[Pausa riflessiva]* Quello sì che fu davvero un  miracolo, come dicono tutti. Sa, quando arrivai in Cina nel 2000, trovai una situazione completamente diversa da tutto ciò che avevo visto prima. Il calcio lì era… come dire… in una fase ancora primordiale rispetto agli standard internazionali.

*[Con tono appassionato]* Ma c’era qualcosa di speciale: 1,3 miliardi di persone che sognavano il Mondiale. La pressione era enorme. Il presidente della federazione mi disse una cosa che non dimenticherò mai: “Bora, se ci porti al Mondiale, entrerai nella storia della Cina“.

*[Entrando nei dettagli tecnici]* Dovetti ripartire dalle basi. I giocatori erano disciplinati, questo sì – un’eredità della cultura cinese – ma mancavano di esperienza internazionale. Fan Zhiyi e Sun Jihai, che giocavano in Inghilterra, erano le nostre uniche  stelle, con esperienza europea.

*[Rivelando un aneddoto particolare]* Sa cosa facevo? Passavo ore a guardare video di calcio internazionale con la squadra. Non solo per la tattica, ma per far capire loro la mentalità, il ritmo del calcio moderno. Usavo un interprete, ma ben presto imparai alcune frasi in cinese – questo li colpì molto.

*[Con intensità crescente]* La qualificazione fu un’impresa epica. Quando battemmo l’Oman 1-0 nella partita decisiva…

*[Scuote la testa]* Non può immaginare cosa successe in Cina. Le strade di Pechino erano un mare di persone. Mi chiamavano  Milu, una versione cinese del mio nome, e mi trattavano come un eroe nazionale.

*[Con un velo di realismo]* Certo, poi al Mondiale le cose non andarono bene – perdemmo tutte e tre le partite nel girone. Ma sa cosa? Quella qualificazione mise in moto qualcosa di più grande del calcio. Dimostrò che anche la Cina poteva competere sul palcoscenico mondiale.

*[Concludendo filosoficamente]* A volte mi chiedono quale sia stato il segreto. La verità è che in Cina ho imparato che nel calcio, come nella vita, la pazienza e la perseveranza sono fondamentali. Non puoi cambiare tutto in un giorno, ma puoi costruire le basi per il futuro. E questo è ciò che credo di aver fatto in Cina.


Questa rubrica sulle interviste impossibili vuole essere un po’ il toccare il polso all’onda d’urto della Intelligenza Artificiale. La chiacchierata su Bora Milutinovic, è divisa in quattro parti: Le domande sono formulate attraverso l’IA da Carlo Bianchi, mentre Fabio Lo Cascio si è occupato della interlocuzione con l’IA.

Continua…

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