L’INTERVISTA IMPOSSIBILE: BORA MILUTINOVIC – PRIMA PARTE
IMPORTANTE: Questa è un’intervista immaginaria con Bora Milutinovic simulata con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale e nello specifico grazie al supporto della LLM di Claude Sonnet di Anthropic nel ruolo di Milutinovic
Bora Milutinovic – 80 anni. Nasce come giocatore nel Partizan Belgrado. Ha giocato anche in Svizzera (Winterthur), Francia (Monaco, Nizza e Rouen) e Messico (Pumas UNAM). Come allenatore dei Pumas UNAM prima e poi con la Nazionale in Messico. In seguito ha allenato il San Lorenzo (Argentina) e l’Udinese (Italia). Ha fatto il selezionatore con Costa Rica, Stati Uniti, Messico, Nigeria, Cina, Honduras, Giamaica e Iraq.
Caro Bora, raccontaci un po’ della tua infanzia e di come sei diventato giocatore assieme ai tuoi due fratelli.
Vede, la mia storia inizia a Bajina Bašta, un piccolo paese della Serbia, dove sono nato nel 1944. Ma sa, non erano tempi facili – mio padre Mihailo, che era stato un calciatore della nazionale jugoslava, morì quando io avevo solo sette anni. È stato un momento che ha segnato profondamente la mia vita e quella dei miei fratelli, Miloš e Milorad.
*[Con un sorriso nostalgico]* Il calcio, però, era nel nostro DNA. Era più di un gioco per noi tre fratelli Milutinović – era un modo di vivere, di sopravvivere. Mia madre Zora doveva crescere tre figli da sola, e noi crescevamo nei campi di calcio di Belgrado. Sa, a quei tempi non c’erano le academy moderne, il nostro settore giovanile; era la strada od il cortile della scuola.
Miloš, il più grande, ha fatto strada nel Partizan Belgrado. Io e Milorad lo seguivamo sempre, era il nostro esempio. Io ho iniziato nel Partizan, poi la mia carriera mi ha portato a giocare in quasi tutto il mondo – Svizzera, Monaco, Nizza, Messico…
*[Pausa riflessiva]* Sa, forse è stato proprio questo girovagare da calciatore che mi ha preparato alla mia futura carriera da allenatore internazionale.
*[Con un tono più profondo]* Ma sa qual è la cosa più bella? Tutti e tre siamo diventati allenatori. Miloš ha allenato la Jugoslavia, io ho girato il mondo con cinque nazionali diverse, e Milorad ha fatto il suo percorso in Nuova Zelanda. Il calcio ci ha unito, ci ha dato un futuro, ci ha permesso di onorare la memoria di nostro padre.
*[Con un lampo negli occhi]* E sa una cosa curiosa? Quando ero bambino, mio padre mi diceva sempre: Bora, nel calcio non esistono confini. All’epoca non capivo, pensavo parlasse solo del campo da gioco. Anni dopo, guidando squadre in ogni angolo del mondo, ho capito che aveva ragione in un senso molto più profondo.
La tua carriera si è svolta fra Yugoslavia, Francia, Svizzera e finalmente Messico. Forse è proprio quest’ultimo ad averti dato le maggiori soddisfazioni?
*[Con tono più tecnico]* In Europa avevo imparato la disciplina tattica, in Jugoslavia la tecnica pura, ma in Messico… in Messico ho scoperto la passione vera, quella che ti fa vedere il calcio in modo diverso. I giocatori messicani hanno questa… come dire… questa
mistica che unisce tecnica e cuore. Hugo Sánchez, per esempio – che fenomeno! L’ho allenato sia nel Pumas che in Nazionale.
*[Assumendo un tono più riflessivo]* Il momento più emozionante? I Mondiali del 1986 in casa. Arrivammo ai quarti di finale, miglior risultato di sempre del Messico insieme a quello del 1970. Sa cosa significa guidare una Nazionale ai Mondiali in casa? È come dirigere un’orchestra davanti a 100 milioni di direttori!
*[Ride]* *[Con intensità]* Ma il Messico mi ha dato molto di più delle soddisfazioni sportive. Mi ha insegnato che un allenatore deve essere anche un po’ antropologo. Deve capire l’anima del paese in cui lavora. È lì che ho sviluppato quella capacità di adattamento che poi mi è servita per lavorare in tutto il mondo.
*[Concludendo con un tocco di filosofia]* Sa cosa dicono in Messico? “Mi casa es tu casa“. Ecco, il Messico ha fatto questo con me: mi ha fatto sentire a casa. E forse è proprio per questo che lì ho ottenuto i risultati migliori – perché quando ti senti a casa, puoi dare il meglio di te stesso.
Perché proprio i Pumas dell’UNAM ti sono rimasti nel cuore, forse perché sei stato dapprima un loro giocatore e poi il loro tecnico?
*[Con gli occhi che si illuminano al ricordo]* I Pumas… *[Pausa emotiva]* Sa, quando si parla dei Pumas, non si parla solo di una squadra di calcio. È un’istituzione che rappresenta l’università più importante del Messico. Questo rende tutto speciale, diverso.
*[Con tono appassionato]* Nel 1972, quando arrivai come giocatore, rimasi subito affascinato da questa duplice anima: lo spirito universitario e la passione calcistica che si fondevano in modo unico. I tifosi dei Pumas non sono solo tifosi, sono studenti, professori, intellettuali. E’ un’atmosfera… come dire… più riflessiva, più culturale.
*[Entrando nei dettagli tecnici]* Come allenatore, dal 1977, hai potuto sviluppare un calcio particolare. Hai sempre creduto che il calcio sia cultura, e quale posto migliore di una squadra universitaria per metterlo in pratica?
Abbiamo creato un laboratorio di idee calcistiche. Ho avuto la fortuna di allenare giocatori come Hugo Sánchez prima che diventasse una stella mondiale del Real Madrid.
*[Con orgoglio]* Nel 1981 vincemmo il campionato, il secondo titolo nella storia del club. Ma sa cosa mi rende più orgoglioso? Il fatto che abbiamo creato uno stile, un’identità. I Pumas giocavano un calcio offensivo, tecnico, intelligente – proprio come lo spirito
dell’università.
*[Rivelando un aneddoto]* Le racconto una cosa: negli spogliatoi, a volte, dopo gli allenamenti, si parlava di tattica ma anche di filosofia, di letteratura. Avevo giocatori che studiavano medicina, ingegneria… Questo rendeva tutto più stimolante, più profondo.
*[Concludendo con emozione]* I Pumas UNAM mi hanno insegnato che il calcio può essere molto più di un gioco. Può essere un veicolo di educazione, di cultura, di crescita personale. È per questo che sono rimasti nel mio cuore – perché lì non ho solo allenato una squadra, ho partecipato ad un progetto di vita.
Continua…
Questa rubrica sulle interviste impossibili vuole essere un po’ il toccare il polso all’onda d’urto della Intelligenza Artificiale. La chiacchierata su Bora Milutinovic, è divisa in tre parti: Le domande sono formulate attraverso l’IA da Carlo Bianchi, mentre Fabio Lo Cascio si è occupato della interlocuzione con l’IA.